Via Giosuè Borsi, 39 - Livorno
Il costume e la maschera
Quand'ero piccolo ero convinto che il vero eroe fosse Superman: forte, dinamico, con superpoteri. Dietro di lui, Clark Kent: un ometto mansueto, remissivo, persino fastidioso. Figura e sfondo, gloria e umiliazione si alternavano fantasiosamente con un cambio di vestito. La morale è semplice: dietro ogni uomo semplice, c'è la possibilità di fare cose gloriose. Basta travestirsi ed il gioco è fatto. Non avevo capito che, in effetti, era Superman a travestirsi da Kent. Perché lo faceva? Per sentirsi amato, accettato, integrato. Ed è così che facciamo tutti, quasi quotidianamente. Possediamo in nuce le capacità di spiccare il volo, eppure le oscuriamo, le camuffiamo, le mascheriamo per farci accettare di più dagli altri. E lo facciamo così bene, da così tanto tempo, che neppure ci accorgiamo più qual è la maschera e quale siamo veramente noi. Ma essere Superman non significa, necessariamente, avere superpoteri e saper affrontare qualunque impresa: significa avere le capacità e le possibilità di farlo. E ogni tanto significa pure essere sensibili alla kriptonite. Quando questo succede andiamo nel panico: non ci perdoniamo sbagli, errori, mancanze. Non è da Superman, non è da noi. Cosa significa, dunque, essere più che uomini? Significa, probabilmente, accettare i nostri limiti, le nostre finitezze, i nostri punti deboli e rivestirci anche di questi. Implica muovere le nostre parti più nobili e le parti meno nobili, perché solo il fatto che sono nostre sono nobilitate. Significa guardarsi allo specchio ed osservare che, in fondo, la maschera che indossiamo non ci fa essere più felici, il costume che portiamo non ci rende più amati, perché il vero amore è per ciò che siamo veramente, e non per quello che vorremmo essere, potremmo essere. E finché non saremo amati per quello che davvero siamo, non saremo mai davvero amati.
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